Mauro Montacchiesi

Omaggio a San Martino di Tours

“Omaggio a San Martino di Tours”
(Portato di ricerca documentale)
Saggio Breve
(Autore :Mauro Montacchiesi)
Struttura del Saggio:
* Nota introduttiva
*Martino di Tours
*Omaggio a Jacques de Molay
*Omaggio a Donna Olimpia
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Nota introduttiva
 
Martino di Tours potrebbe sembrare irrelato agli altri due personaggi, ma, come si evincerà nello svolgimento del saggio, è relato a Jacques de Molay tramite la “cappa”…
Il Dizionario Garzanti al lemma “cappella” così recita:
Etimologia: Lat. mediev. cappella(m), prob. nome con cui in orig. si indicava l'oratorio del palazzo dei re franchi, nel quale si custodiva una reliquia della cappa di san Martino di Tours
 
…ed a Donna Olimpia tramite la città di San Martino al Cimino.
 
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Martino di Tours
Santo Patrono ed eponimo di San Martino al Cimino
 
Brevi cenni biografico-introduttivi
 
Il dies natalis di Martino non è documentato, come non lo è, d'altronde, l'annus natalis! Nondimeno l'anno viene collocato tra il 316 ed il 317 D.C. (undicesimo anno del Principato di Costantino Il Grande, come riportato dallo scrittore Gregorio di Tours), a Sabaria Sicca, odierna Szombathely, capoluogo della Contea di Vas (Ungheria, alias Pannonia: Impero Romano d'Occidente), nei pressi della frontiera con l'Austria, sul fiume Gyongyos. La città di Sabaria Sicca fu fondata per ordine dell'Imperatore Claudio nel 43 D.C. e, successivamente, assurta allo status di colonia. Martino spirò a Candes-Saint-Martin (Touraine, regione storica della Francia centro-occidentale, ampiamente identificabile nell'odierno dipartimento di Indre-et-Loire) l'8 novembre 397. Martino fu Vescovo e Confessore, ovvero Santo che testimoniò la sua fede in Cristo con l'eroicità delle sue virtù. Tra i non martiri, Martino fu uno dei primi ad essere canonizzato, ovvero santificato ed è tuttora venerato dalle Chiese: Cattolica, Ortodossa e Copta. Alcune documentazioni storiche riportano, comunque, che Martino nacque a Pannonhalma, un paesino del ponente pannonico, nella provincia di Gyor-Moson-Sopron, paesino che, qualche secolo più tardi, sarebbe diventato famoso per l'Abbazia Territoriale di Pannonhalma, sede dell'Ordine Benedettino ed ancora una delle più antiche ed importanti opere architettoniche dell'odierna Ungheria! Benché Martino sia spirato l'8 novembre, la sua commemorazione è l'11 novembre, ovvero il giorno in cui vennero celebrate le sue esequie a Tours (Indre-et-Loire). Il padre di Martino, italico, era un Ufficiale Romano di carriera, di alto rango! Fiero e convinto militare, il padre gli attribuì così il nome di Martino (Piccolo Marte), in ossequio, appunto, al Dio guerriero: Marte! In età adolescenziale Martino seguì la propria famiglia a Pavia, città natale del padre, che lì era stato nominato Tribuno Militare. A Pavia Martino fu permeato di cultura umanistica e frequentò maestri classici entrando, inoltre, in relazione con il Cristianesimo, religione che, seppur non capillarmente e profondamente diffusa, non veniva più, per il momento, vessata! La forza centripeta ed il fascino del Vangelo di Cristo furono così dirompenti che Martino chiese di aderire al catecumenato per poter poi essere battezzato, ma i genitori lo avversarono, poiché avevano già pianificato per lui la carriera militare. Non solo, Martino fu avversato dalla stessa Chiesa, la quale diffidava dei militari e/o dei loro congiunti che si volevano convertire al Cristianesimo. Già in questo periodo Martino avvertì forte il bisogno di consacrarsi a vita anacoretica, ma, essendo figlio di un alto ufficiale di Roma, dovette obbligatoriamente intraprendere la vita militare, a cui si dedicò con solerzia e diligenza. Infatti il padre, cogliendo l'occasione di una nuova legge che prevedeva l'anticipo obbligatorio di due anni del servizio militare, forzò Martino al giuramento militare appena compiuti i quindici anni. Ne risultò che Martino dovette interrompere gli studi ed iniziare la nuova attività militare. Così, più tardi, Martino fu assegnato alla Cavalleria Imperiale, in Gallia, prima a Reims e poi ad Amiens, con compiti di ronda, ispezione e sorveglianza delle guarnigioni, particolarmente di notte. Ma lì, il quindicenne, finalmente abbracciò il Cristianesimo. Infine, abbandonata la vita militare, si consacrò al
Monachesimo, a Poitiers (Poitou-Charente-Francia).
*
Il mantello
 
Una tarda e freddissima sera invernale (338/339) Martino, alla testa dei suoi militi, transitava a cavallo nei pressi di una delle porte di Amiens (Piccardia-Francia), dove era di guardia, allorché si imbattè in un clochard che implorava aiuto, pressoché nudo, coperto da pochi brandelli, laceri e cadenti. Martino, in quel momento, non disponeva né di cibo né di denaro ed allora, istintivamente e senza pensarci su, con la spada divise il proprio mantello militare e ne offrì una metà al poveraccio affinché, almeno, si riparasse dal freddo. Poche ore dopo, dormendo, Martino, in visione onirica, incontrò Cristo vestito della metà del suo mantello, che gli disse: "Quello che hai fatto al più povero dei miei fratelli, lo hai fatto a me"! Ed ancora, Martino sentì Cristo annunciare agli Angeli: " Questo è Martino, il soldato non battezzato che mi ha vestito"! Al risveglio Martino notò che il suo mantello era intero. Questo episodio fu determinante per la sua futura vocazione! Il taumaturgico mantello fu preservato e custodito come reliquia e, quindi, allogato nel reliquiario dei Re Merovingi e Franchi! In latino "mantello corto" si dice "cappella" ed il termine venne sin da allora usato estendendolo agli assegnatari della custodia del mantello di San Martino, ergo: ai "Cappellani"! I "Cappellani" estesero poi il termine "cappella" per indicare l'oratorio reale, ovvero il locale riservato alle orazioni. Nei secoli, tuttavia, il termine subirà diverse corruzioni semantico-linguistiche. E' importante ricordare che Ugo Capeto, fondatore della Stirpe Capetingia di Francia e cronologicamente successivo a Merovingi e Franchi, mutuò il suo epiteto "Capeto" (o meglio, gli fu affibbiato) dalla piccola cappa che suoleva indossare (capeta). Si può quindi desumere, senza tema di smentita, che, etimologicamente parlando, l'epiteto "Capetingio" affondi le proprie radici dal mantello-reliquia (cappa), tanto caro ai Sovrani Merovingi e Franchi, di un soldato romano: Martino! Il culto di San Martino si propalò soprattutto ai tempi di Carlo Magno ed al Santo vennero consacrati numerosi templi e, tra l'altro, la cappella del Palais Royal di Parigi, vale a dire la "Sainte Chapelle", denominata in questo modo in onore e memoria del mantello del Santo (mantello=cappa=chapelle=piccola cappa).
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Martino diventa Cristiano
 
L'esperienza onirica esercitò un tale influsso su Martino, al punto che il soldato romano, da tempo catecumeno, si fece battezzare il giorno della Pasqua successiva all'episodio del mantello.
Successivamente Martino risolse di abbandonare per sempre la vita militare, incompatibile con la sua adesione al Cristianesimo, e di indossare il saio monastico. In questo venne emulato da un folto numeri di amici, conoscenti e, via via, proseliti! Nel 361 D.C. fondò una comunità di asceti. Così l'ex soldato romano gettò le basi di ciò che sarà contemplato come il proto-monastero del mondo occidentale, con gli auspici di Ilario, Vescovo di Poitiers, nella vicina Ligugè! Ilario ordinò Martino "esorcista", in direzione del "sacerdozio"! Il Monaco Martino si impegnò quindi alacremente ed indefessamente nell'opera di cristianizzazione dei Galli. A tal fine intraprese una lunga serie di predicazioni itineranti nel lungo e nel largo della Gallia, particolarmente nelle sperdute ed isolate campagne. Martino si rivelò "Buon Pastore": costituì ulteriori monasteri e parrocchie rurali, alfabetizzò molti fedeli! Questo apostolato, nondimeno, non fu facile, poiché Martino si scontrò con la gerarchia ariana, con il paganesimo e, se non bastasse, con lo stessa classe sacerdotale mondanizzata. Nella sua opera di depaganizzazione delle genti, Martino distrusse simboli, icone, statue, delubri, are, etc...
Durante questa sua missione "evangelica", Martino approdò ad alte vette di popolarità e, nell'anno 371 D.C., gli abitanti di Tours lo postularono, con successo, quale loro Vescovo. Martino accettò il Vescovado come "incarico divino"! Nel ruolo di Vescovo, Martino fu particolarmente solerte e dinamico nella propalazione del Vangelo. Il suo carisma si affermò dappertutto, alimentato e dilatato dalle sue prerogative di amore, umanità, compassione, altruismo, equità, semplicità e, non ultima, dalla sua prerogativa di guaritore! Si addentrò capillarmente anche nelle circoscrizioni ecclesiastiche di altri Vescovi, financo in quella di Autun (Francia centro-orientale: Saòne-et-Loire) abitata dai Galli Borgognoni Edui. Ed ancora, scese fino a Vienne (Francia sudorientale: Isère/Delfinato). La maggior parte dei Vescovi di quell'epoca erano prèsuli dai vezzi ormai troppo urbanizzati e scarsamente edotti circa il modus vivendi e le istanze dei rurali, ovvero circa le esigenze della stessa terra. Martino, per converso, interpretò ed attuò il suo apostolato con una dialettica evangelica molto più diretta, capillare, penetrante e scrupolosamente attenta alle istanze dei più bisognosi. Martino, monaco sia di riflessiva orazione sia di dinamica intraprendenza, si recava sempre di persona nelle aree rurali popolate da poveri contadini, le cui inderogabili istanze di misticismo erano ineffabili ed incontrovertibili, reificando così quella che fu la sua più folgorante illuminazione: l'apostolato evangelico tra i contadini! Nel 372 D.C., poco discosto dalle mura di Tours, sulla sponda opposta della Loira (Indre-et-Loire), Martino edificò un monastero, il "Maius Monasterium" ("Grande Monastero", più tardi ribattezzato "Marmoutier") dove, per un periodo, dimorò. Anche l'apostolato degli ultimi giorni di vita di Martino fu caratterizzato dalla predicazione e dalla ricerca della pace e dell'armonia, soprattutto a Candes, dove Martino era stato invocato per far da conciliatore tra il turbolento ordine sacerdotale ivi di stanza. Ma qui Martino spirò. Era l'8 novembre dell'anno 397 D.C. Le esequie furono celebrate l'11 novembre, a Tours, in un immenso bagno di folla e di monaci (duemila circa soltanto questi ultimi). Martino, in perfetta ortodossia con il Concilio di Nicea del 325 D.C., fu un indefesso e tetragono antagonista dell'Arianesimo, dottrina ereticale postulata, ad Alessandria d'Egitto, dal prete Ario. L'unico documento storico attendibile sulla vita di Martino è il "De vita beati Martini-liber unus", del Gallo Aristocratico Sulpicio Severo. Un altro importante documento su Martino è il "De vita sancti Martini episcopi", del 460 D.C., che tuttavia non aggiunge particolari nuovi, poiché si tratta di una versione in esametri del "De vita beati martini-liber unus", ad opera di Paolino di Périgueux, sacerdote e poeta gallico del V° secolo.
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Saggio breve
Omaggio a Jacques de Molay
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Nota introduttiva dell’autore
 
Il 27 gennaio di ogni anno si celebra il “Giorno della memoria” dell’Olocausto, mentre il 10 febbraio di ogni anno si celebra il “Giorno della memoria” delle Foibe, “per non dimenticare”! Ed allora, perché non istituire un “Giorno della memoria” del Martirio dei Templari, “per non dimenticare”??? E quale più consono giorno potrebbe essere se non il 18 marzo, ovvero il giorno
(1314) del martirio sul rogo del Martire Templare per antonomasia, ovvero del Gran Maestro Jacques de Molay? Questo breve saggio storico tende proprio a questo, ovvero a mantenere vivo il ricordo del Martirio Templare. Tuttavia il saggio non indugia sulla figura storica dei Templari, bensì su quella di Ugo Capeto, capostipite della Dinastia Capetingia e su quella del suo tardo successore, Filippo IV “Il Bello”, ovvero sul carnefice dei Templari. Ugo Capeto viene coinvolto,
scomodando Dante Alighieri, poiché fondò la Dinastia Capetingia sulla base della violenza, dell’usurpazione del trono e della corruzione, che utilizzò per accattivarsi i favori necessari all’ascesa. Tutto ciò vuole significare che l’ascesa al trono di Filippo IV era già illegalmente e proditoriamente viziata a monte, ovvero alle origini dinastiche. Riferimenti vengono fatti alla decadenza della società francese durante il Regno di Filippo IV. Viene altresì riportata un’epigrafica monografia sull’Ordine Templare. Il saggio si conclude con una massima di saggezza, vergente ad enfatizzare la nefandezza e l’orripilanza interiori del Bel Sovrano di Francia.
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Struttura del saggio:
I Capetingi
Ugo Capeto (987-996)
Ugo Capeto nel Purgatorio-Canto XX
Filippo IV di Francia
La Francia durante il Regno di Filippo IV Il Bello
Templari
“Omnia mea mecum porto”
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I Capetingi
 
Genealogia reale francese che, fraudolentemente, succedette ai Carolingi, succeduti ai Merovingi, sul trono di Francia. Mutuò l’appellativo da Ugo Capeto (così soprannominato a causa del piccolo mantello con cappuccio, in francese “cape”, che era solito indossare), Monarca di Francia nella fase conclusiva del secolo decimo, proclamato Re a Noyon, il 3 luglio 987. Dante lo citò nel “Purgatorio” con il nome di “Ugo Ciapetta”. Ad Ugo Capeto seguirono sul trono, in linea retta, per finire con Carlo IV Il Bello, deceduto nel 1328, quattordici Monarchi. Partendo dal fulcro primigenio della loro potenza, l’Ile-de-France, ebbero il nefando magistero, progressivamente, usurpando e prevaricando su un cospicuo numero di nobili, principi e sovrani dell’epoca, di allargare il loro influsso su porzioni sempre più vaste della regione francese (precipuamente nel sud della Francia, a grave danno dei regni formatisi con lo sfaldamento dell’Impero Carolingio) e di organizzare aggressioni esterne a quest’area. Nondimeno, al di là della conquista di ulteriori territori, l’operato dei Capetingi si identificò nella strutturazione della monarchia francese, che essi corroborarono e consolidarono, …
 
(in questa logica essi potenziarono cospicuamente l’autorità regia in Francia, dogmatizzando i principi di ereditarietà maschile della successione al trono, di primogenitura e di indivisibilità dei territori del regno)
 
…non soltanto militarmente e fiscalmente, ma pure e, soprattutto, nella direzione di un’ideologia fortemente autocratica e cinicamente negligente dei diritti altrui. I Capetingi furono, invero, i più tetragoni fautori del concetto di intangibilità del potere monarchico e dell’immedesimazione della nazione con il suo stesso monarca. I Capetingi, pressoché arrogandosi diritti teocratici, ascrissero al loro potere uno stigma ierocratico, compendiato nei motti : “Re Cristianissmo” o “Per Grazia di Dio” (sec. XIV). A partire dal XII secolo, postularono l’assunto del “Re Imperatore nel suo Regno”, assunto che rappresentò la “condicio sine qua non” ideologica per l’evoluzione di una monolitica monarchia nazionale. Le numerose propaggini della famiglia ed il sistema degli utilitaristici e subdoli “Matrimoni di Stato”, permise ai Capetingi di allogare, su vari troni europei, epigoni…
 
(Angiò, Borgogna, Borbone, Condé, Longueville, Orléans, Valois)
 
…del proprio Casato, epigoni con i quali, tra l’altro, si trovarono sovente in forte attrito. I Capetingi giunsero fino all’Impero di Costantinopoli. Ai Capetingi, per via indiretta, succedettero prima i Valois e poi i Borbone.
 
Molte fonti e tradizioni storiografiche parlano di “cupidigia” della stirpe capetingia e, soprattutto, degli ultimi rappresentanti. Una virulenta sferzata alla politica della Dinastia Capetingia fu data da Luigi VI (1108-1137), il quale ricusò qualsiasi dialettica con il sistema feudale, anzi soffocandone con la violenza qualsiasi opposizione, con selvaggio spirito e brutale astuzia. A far seguito dall’assimilazione della Provenza, arrecata come dote nel 1245 da Beatrice a Carlo D’Angiò, il quale la unì al Regno di Napoli, cominciarono una sequela di annessioni, ottenute con le armi o con l’imbroglio, nella logica di una fausta, ma bièca strategia di unificazione interna e di dilatazione esterna. Alle inique e fraudolente annessioni si addizionarono ulteriori crimini tra cui, molto importanti: la condanna a morte di Corradino di Svevia, l’assassinio di San Tommaso D’Aquino, lo “Schiaffo di Anagni”, lo scioglimento dell’Ordine dei Templari. Episodi, questi, tutti ripetutamente rammentati e citati da Dante.
*

Ugo Capeto (987-996)

 
Deceduto Lodovico V, ultimo Re Carolingio (967-987), Ugo Capeto, con denaro e corruzione, si procurò consenso dispensando  terre ai suoi elettori. Sebbene la Nobiltà Francese non fosse, in un primo momento, intenzionata a sostenere la creazione di una dinastia capetingia, Ugo si valse ad imporre la sua autorità e a far incoronare co-reggente suo figlio, Roberto II. I Capetingi si garantirono, in questo modo, la successione alla corona, per discendenza maschile, per più di tre secoli (987-1328), ovvero per diritto ereditario e non per diritto di elezione. Iniziò così una serie ininterrotta di Re appartenenti alla medesima genealogia. Quando Ugo Capeto fu eletto, a Senlis, dall’Assemblea dei prezzolati Feudatari, l’Arcivescovo di Reims, Adalbertone, che presenziò ed avallò, sanzionò palesemente che la Corona di Francia era elettiva, come in Germania. Tuttavia, mentre in Germania rimase elettiva, in Francia i Capetingi procurarono ben presto l’insorgere del principio che il Re “non muore” e che il suo potere passa “ipso iure” al figlio. Dante Alighieri asserisce che Lodovico V fu “renduto in panni bigi” (Pg. XX, 54), ovvero che l’ultimo dei
“li regi antichi”, ovvero dei Carolingi, fu costretto coattivamente a ritirarsi nella clausura di un chiostro. In altri termini “fu fatto prigioniero”. Altresì Dante fa risalire Ugo Capeto ad un’umile origine ed asserisce che era figlio di un ricchissimo mercante di bestiame, i cui soldi servirono a corrompere i feudatari ed a comprare il loro appoggio. De facto, Dante accusa Ugo Capeto (che nella Divina Commedia colloca, disteso bocconi e legato, nel V Girone, ovvero tra i prodighi e gli avari)  di usurpare il trono: “Figliuol fu’ io d’un beccaio di Parigi” (Pg. XX, 52). Tuttavia non lo condanna tanto per aver usurpato il trono, quanto per aver dato origine ad una dinastia scellerata.
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Ugo Capeto nel Purgatorio
Canto XX
Sollecitato da Papa Adriano V (dei Fieschi), molto cautamente, Dante, pressoché sulla punta dei piedi, transita per il quinto terrazzamento della montagna, facendo attenzione a non pigiare l’umano manto dei prodighi e degli avari (bocconi a terra e legati), allorché il grido di una larva, mescolato tra i singulti, lo induce ad arrestare il suo incedere. Versa lacrime amare quella larva, finora anonima, che adesso, ancor più singultando, proferisce due paradigmi della virtù antitetica al suo vizio. Quel grido, quella voce, dopo aver verbalmente e severamente attaccato il peccato capitale dell’avarizia, origine di tanta iniquità, rammenta, ancor piangendo, tre esempi, due di povertà ed uno di generosità, ovvero: quello di Maria che diede alla luce Gesù, quello del Console Romano Fabrizio che non si lasciò corrompere dalle ricchezze offerte dal nemico e quello di San Nicola, Vescovo di Bari, che salvò tre fanciulle dal meretricio. Dante, quindi, si rivolge alla sconosciuta anima, per conoscerla. Quel grido, quella implorazione altro non sono che l’impetrazione patetica di Ugo Capeto, progenitore della genealogia dei Reali di Francia, che costituisce l’incipit del canto XX del Purgatorio. Quindi il dolore si frammischia alla collera, man mano che il “proto-capetingio” enuclea le fasi trucemente salienti della sua bièca schiatta, che egli stesso, con una requisitoria, condanna per la brama di potere e di ricchezza, per la frode e la violenza, per la prevaricazione poste in essere. Ugo Capeto cita quindi Carlo D’Angiò (che provocò la morte di Corradino di Svevia e di San Tommaso D’Aquino), Carlo di Valois (che ebbe un ruolo topico nel fomentare l’uso delle armi e l’anarchia in Firenze), Carlo II D’Angiò (che mandò in moglie l’ancor giovanissima figlia Beatrice ad Azzo VIII D’Este, in cambio di una somma di denaro), arrivando a Filippo Il Bello, mandante del delitto di “lesa maestà” nei confronti di Papa Bonifacio VIII (fatto ascritto negli annali di Storia come “Lo schiaffo di Anagni”), nonché mandante dell’efferato delitto di persecuzione e scioglimento dell’Ordine dei Templari. Il biasimo per la violenza e l’avidità che Ugo Capeto indirizza al suo postero e successore Filippo IV, è, ovviamente, musica per le orecchie del fiorentin, nel Purgatorio, itineranteVate. Ugo Capeto si rivolge ancora a Dante, dicendogli che le anime dei prodighi e degli avari recitano di giorno esempi di povertà e di generosità e di notte, invece, ricordano personaggi che sono stati negativamente famosi a causa di prodigalità ed avarizia: Crasso, Polimestere, Pigmalione, Mida, Acan, Anania, Satira, Eliodoro…
Dante e la sua guida, Virgilio, si son or ora allontanati da Ugo Capeto, allorché il primo ode:
“come cosa che cada/tremar lo monte; onde mi prese un gelo/qual prender suol colui ch’a morte vada”
La montagna del Purgatorio è quindi violentemente scrollata da un sisma, intanto che le anime di tutte le cornici intonano in coro “Gloria in excelsis Deo”. I due poeti si bloccano e restano immobili e sospesi. Quindi riprendono la loro marcia. Dante vorrebbe sapere il perché di quel terremoto, ma non ha l’ardire di domandarlo a Virgilio. Più tardi saprà che un’anima ha finito di espiare in Purgatorio ed è ascesa al Paradiso. Vale a dire che il fenomeno si ripete ogni volta che quest’ultimo evento si verifica.
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Filippo IV di Francia

(Filippo Il Bello “Le Bel” “Capeto”)
(Fontainebleau, 1268-Fontainebleau, 29 novembre 1314)
 
Filippo salì al trono di Francia a 17 anni, alla morte del padre, nel 1285 e regnò fino alla sua morte.
Rampollo della genealogia dei Capetingi, Filippo vide i propri natali nel Palazzo di Fontainebleau. Nipote di Luigi IX, figlio del Re Filippo III L’Ardito (o “L’Audace”) e di Isabella D’Aragona.
Fratello di Carlo di Valois. Filippo fu soprannominato “Il Bello” per il suo avvenente aspetto.
Regio enfant gaté, già nella sua adolescenza manifestò cospicui prodromi di crudeltà, egoismo e cinismo. Come Re, Filippo, consacrò una larga porzione della sua esistenza ad un’azione di assestamento e di potenziamento della monarchia, che lo portò ad avviare un’opinabile e controversa struttura burocratica, che defilava, invero, una vigorosa, tetragona ed adamantina autocrazia. Un anno prima di ascendere al trono, Filippo sposò Giovanna I, Regina di Navarra. Era il 16 agosto 1284. Connubio, questo, estremamente topico in ambito territoriale, considerando che Giovanna, tra l’altro, era pure Contessa di, ovvero regnava anche su Champagne e Brie, regioni contigue all’Ile-de-France, che si fusero ai possedimenti del Capetingio Monarca, con il risultato di un immenso regno. Filippo, con spregiudicato ed individualistico utilitarsismo, dilatò in questo modo, rapidamente, a dismisura e gratuitamente, i domini capetingi. Filippo assunse allora il titolo di Re di Francia e di Navarra, fino al 1304, anno in cui Giovanna morì. Da Giovanna ebbe quattro figli: Isabella (la “Lupa di Francia”), Luigi X (Il Litigioso), Filippo V (Il Lungo) e Carlo IV (Il Bello). Il Regno di Francia era, all’epoca dell’ascesa al trono di Filippo IV, assai prospero e vi abitava un terzo della Cristianità Latina, ovvero dai 13 ai 15 milioni di persone. Il novello Re, coadiuvato da un entourage di mentori esperti di diritto (i giuristi), fu il primo sovrano moderno di uno Stato forte e centralizzato. Nondimeno, diverse riforme fallirono. Nell’utopia di controllare il proprio Regno nella sua vastità, il Re non fu capace di gestire con equilibrio le imposte dirette e/o di riorganizzare un’amministrazione ben funzionante. Già nel 1285, vale a dire non appena salì al trono, Filippo si prodigò nella lacerante ed esosa guerra contro l’Aragona (conflitto che aveva prodotto la morte del padre, nel 1291), in sostegno degli Angioini dell’Italia Meridionale, pesantemente e pericolosamente coinvolti nella “Guerra del Vespro” (1282-1303). Il conflitto contro gli Aragonesi si protrasse per un decennio e terminò con il Trattato di Anagni (1295), in virtù dell’imprescindibile e determinante azione diplomatica di Papa Bonifacio VIII. Nel triennio 1294-1296, Filippo occupò con le armi, ovvero violandone i diritti territoriali, la Guienna o “Guyenne” (una delle precipue ragioni di frizione con Edoardo I d’Inghilterra), il Barrois, Lion Viviers. Nel 1296, avendo già inferto un duro colpo agli Ebrei per far fibrillare e per tonificare la languente  economia francese, in una congiuntura negativa per il rinnovamento politico delle strutture del regno ed avendo istanza di capitali per la guerra contro Edoardo I, Filippo deliberò, unilateralmente e monocraticamente, l’imposizione di una tassa straordinaria, anche al Clero, ovvero ingiunse un contributo alla Chiesa francese, provocando, così, una prima diatriba con Roma, esulceratasi nel 1301, per l’arrogazione del diritto di giudicare un Vescovo. (*01)
Il 25 febbraio 1296, Papa Bonifacio VIII replicò alla decisione di Filippo con la bolla “ Clericis laicos”. Con questa bolla il Papa inibì al Clero francese di erogare tasse al Sovrano, ovvero ad un’istituzione laica, senza il previo placet pontificio. La bolla reiterava, vieppiù, l’egemonia del potere spirituale su quello temporale e contemplava scomuniche per quei laici che, d’ufficio e coattivamente, avessero reclamato dal Clero l’esazione  di indebite imposte. Di fatto, la ricusazione del Clero di Aquitania a qualsivoglia metodo di contribuzione a favore della guerra contro gli Inglesi, diede l’aire al conflitto contro il Papato. Il 17 agosto 1296, Filippo precluse ogni invio di oro e di argento verso Roma, ovvero verso lo Stato della Chiesa. In un primo momento Papa Bonifacio controbatté con la bolla “Ineffabilis amoris”, quindi, paventando rappresaglie, nel 1297, la revocò. Non meno critico, prostrante ed esoso della “Guerra Aragonese”, fu l’attrito con Edoardo I d’Inghilterra (alleato dei Conti di Fiandra), che raggiunse il parossismo, ovvero divenne conflitto aperto nel 1294. Questo conflitto vide il proprio epilogo nel 1298, per virtù dell’intercessione spirituale di Papa Bonifacio VIII (Trattato di Montreuil 1299, siglato da Filippo Il Bello e da Guy, Conte di Fiandra). Nel corso di questa guerra, nel 1297, per castigare i Dampierre (*02), …
 
(*02) Famiglia francese che ebbe tra i suoi maggiori esponenti GUY (1225-1305), Conte di Fiandra, che combatté contro Filippo Il Bello (da quest’ultimo proditoriamente ed abiettamente attirato in trappola a Parigi nel 1300, dopo la firma del Trattato di Montreuil, imprigionato, esautorato e sostituito da un governatore d nomina reale), sostenuto da Edoardo I d’Inghilterra. Guy, con il bieco inganno, fu sopraffatto ed i suoi possedimenti furono coattamente ed illegalmente fagocitati dall’avida Corona francese, sia pure per un esiguo lasso di tempo.
 
…alleati di Edoardo I, il Bel Capeto invase le Fiandre, occupandole ed usurpandole con inquietanti prepotenze, nonché con asprissimi e vergognosissimi abusi di potere, il che egli continuò a fare anche altrove, al fine di procacciarsi i capitali ed i mezzi inderogabili per condurre le proprie imprese di violazione dei diritti dei popoli. Nondimeno, a posteriori del citato Trattato di Montreuil, per quel che concerne l’Inghilterra, si trattò di una situazione di stand-by, la quale approdò ad un’apprezzabile normalizzazione nel 1308, grazie al regal imenèo tra Edoardo II d’Inghilterra e la figlia di Filippo IV, Isabella di Francia. Papa Bonifacio VIII aveva auspicato questo matrimonio già nel 1298. Tuttavia, illo tempore, non se ne fece nulla a cagione del veto di Edoardo I, il quale trapassò nel 1307 lasciando, di fatto, via libera alle nozze. Tra il Trattato di Montreuil (1299) e le nozze tra Edoardo II ed Isabella di Francia (1308), contro la Francia, a questo punto prostrata e lacerata dal conflitto, si sollevarono in armi le Fiandre, le cui milizie urbane infersero a Filippo una storica e catastrofica débacle a Courtrai (Battaglia “Degli Speroni d’oro” “Guldensporenslag”-Piana di Groninga-Kortriyk-Fiandra, 11 luglio 1302). Molto presto, nell’umida bruma, nella fioca luce dell’alba incipiente, di quel 18 maggio 1302, i Fiamminghi, a Bruges, massacrarono 3.000 soldati francesi, innocenti vittime della crudele ambizione e della famelica cupidigia del loro stesso, scellerato Sovrano. Nondimeno, il Barbaro Capetingio (perché questa è la sua schiatta) cinicamente gioì di una sua vanitosa, superba, orgogliosa rivincita, guidando personalmente la cruentissima battaglia di Mons.en-Pucelle/Pélève (1304), a cui seguì il Trattato di Athis-sur-Orge (1305), in virtù del quale il Capetingio si annetté le città di Bèthune, Lilla e Douai. Furono barbaramente trucidati 80.000 Fiamminghi, che si immolarono stoicamente, sublimando il loro martirio per la libertà, l’autonomia, i diritti e l’onore della propria gente.
 
(*01) Ottobre 1301.
Sotto il Nobile Pierre Flotte(^) (caduto combattendo contro i Fiamminghi), Giurisperito, Guardasigilli  e Gran Cancelliere di Filippo IV, …
 
(^) Pierre Flotte fece spesso riferimento al “legum doctor” Azzone da Bologna “1150-1225”, uno dei più grandi giuristi-glossatori medioevali, ovvero fece spesso riferimento al suo principio “rex in regno suo est imperator”, al fine di costituire il pilastro fondamentale per lo Stato moderno di Francia. Parimenti e per lo stesso motivo, fece riferimento anche al Domenicano, giurista e filosofo, Jean de Paris “Paris 1260-Bordeaux 1306”, il quale ricusava qualsiasi vassallaggio del Sovrano al potere temporale del Papa e prefigurava il conferimento al Sovrano di poteri anche in materia religiosa.
 
…lavorava un partito antiguelfo, con il quale collaborarono i fuoriusciti Colonna. Riesplosero i dissidi sulle immunità ecclesiastiche. Le difficoltà economiche della Francia furono l’incontrovertibile motivo della tenzone tra Filippo IV e Papa Bonifacio VIII (Bonifacio in questo anno fondò l’Università di Avignone), tenzone che si esacerbò quando Filippo fece arrestare il legato pontificio, il Vescovo di Senlis Pamiers, Bernard Saisset, tacciandolo di eresia e tradimento. Bonifacio VIII intervenne nelle questioni interne francesi, richiamando a Roma i vescovi gallicani, gli abati, i canonisti, i rappresentanti dei capitoli (ante promotionem nostram, 5 dicembre 1301). Nella bolla sincrona “Ausculta Fili…” stigmatizzò il rivale, avvertendolo: “…extra ecclesiam, nemo salvatur. Constituit Nos Deus super reges et regna”! Nell’entourage di Pierre Flotte esercitava Pierre Du Blois, Normanno, avvocato reale a Coutances, politologo, protopubblicista, autore di una « Summaria brevis et compendiosa doctrina felicis expeditionis guerrarum ac litium regni Francorum”, databile al 1300. Du Blois aveva in mente la “Monarchia Universale Francese”. Primo passo: Sua Maestà rimuova il Pontefice dagli Stati Romani; rivolga i suoi interessi alla pingue Lombardia; alloghi Suo fratello Carlo di Valois (*03) sul trono costantinopolitano, facendogli impalmare l’ereditiera; …
 
(*03) Carlo di Valois, Conte di Valois dal 1286, Conte di Angiò e del Maine dal 1290, Conte di Alençon dal 1291 e Conte di Chartres dal 1293 fino alla sua morte. Fu inoltre Imperatore consorte titolare dell’Impero Romano d’Oriente dal 1301 al 1308 e Re titolare d’Aragona dal 1283 al 1295.
Nel 1283 il tredicenne Carlo fu designato da Papa Martino IV a succedere sul trono di Aragona, a Pietro III d’Aragona, esautorato e colpito da scomunica quello stesso anno. Nel 1290 il matrimonio con Margherita d’Angiò gli permise di entrare in possesso delle Contee d’Angiò e del Maine, costituenti le doti della moglie. Carlo, dopo poco tempo, prese in moglie Caterina di Courtnay, figlia di Filippo I di Courtnay (a sua volta figlio dell’ultimo Imperatore Latino di Costantinopoli, Baldovino II), cercando una rapida corsia preferenziale verso il trono dell’Impero Romano d’Oriente, potendo Caterina rivendicarne i diritti. Durante la guerra che si stava aspramente combattendo in Sicilia, tra Aragonesi ed Angioini, il Papa Bonifacio VIII si valse a sensibilizzare il Re di Francia, Filippo Il Bello che, nel 1301, inviò un esercito al comando del fratello Carlo di Valois. Carlo, giunto in Italia col suo esercito, intervenne a Firenze nel tentativo, almeno ufficialmente, di riportare la pace tra i Guelfi Bianchi e Neri. Egli favorì i Neri, mettendo al bando i Bianchi dalla città (tra questi Dante) nel 1301. Carlo, poi, novello, truculento Attila, bruciando, depredando e saccheggiando, proseguì la marcia verso la Sicilia con un palese piano di conquista, ma la malaria e la paura di un attacco da parte del Re Aragonese di Sicilia, Federico, lo fecero abdicare al suo intento. Carlo di Valois intervenne ancora in Italia, nel 1308, quando, alleato di Venezia, si trovò coinvolto nella lotta di successione del Marchesato di Ferrara, dopo la morte del Marchese Azzo VIII d’Este.
 
…soccorra il cugino Alfonso de la Cerda, mirando agli insediamenti spagnoli; guardi all’Ungheria ed alla Germania (*04); . …
 
(*04) Carlo di Valois, con il patrocinio del fratello Filippo Il Bello, nella loro nefanda e comune logica di espansione territoriale, di usurpazione e di conquista, tentò di raggiungere il Soglio Imperiale d’Asburgo, sia dopo l’assassinio di Alberto I (1308) sia dopo la morte di Arrigo VII (1313), ma non vi riuscì.
 
…all’interno acquisisca il monopolio reale sulle giurisdizioni “usurpate” dalla Chiesa. Basta non paventare anatemi. Si riporti la Casa di Lussemburgo sul trono imperiale (*05); …
 
(*05) Secondo questo piano il Regno di Arles doveva essere donato a Carlo di Valois, ma il Re di Napoli e Conte di Provenza, Roberto Il Saggio, fece, per fortuna, abortire il piano.
 
…si mantenga l’ordine nella Fiandra (*06).
 
(*06) Carlo di Valois morì nel 1325, anno in cui aveva guidato l’esercito per reprimere ferocemente nel sangue alcune sedizioni, proprio nell’irredentista Fiandra.

 
Alla bolla “Ausculta fili…” Filippo Il Bello replicò convocando (1302) gli Stati Generali (Clero, Nobiltà e Borghesia) nella chiesa di Notre-Dame di Parigi, dove fu letta la dichiarazione di indipendenza della Francia e dei suoi Re al cospetto del potere spirituale. Anche il Clero francese votò a favore del Re. Per quel che concerne Bonifacio VIII, egli, con la notissima bolla “Unam Sanctam” del 1302, riaffermò l’assunto dell’egemonia della Chiesa sul potere civile. Filippo IV, scomunicato (1303), si oppose con efferata risolutezza e reagì postulando un processo per eresia e per infirmare l’elezione di Bonifacio VIII, ovvero  inviando il suo machiavellico Longa Manus, il
Cancelliere Guglielmo di Nogaret a Roma, a capo di alcuni soldati, per intimare al Pontefice, con la complicità del sordido Sciarra Colonna, di revocare la bolla pontificia “Super Petri Solio” che conteneva la scomunica. Il Papa fu sorpreso ad Anagni e, catturato coattivamente (*07) “Schiaffo di Anagni”, fu recluso nel profanato Palazzo di Anagni. I due sacrileghi aguzzini cercarono di costringerlo, oltre che ad abiurare la bolla, anche ad abdicare. L’episodio fu risolto da una sedizione popolare degli indignati ed inferociti cittadini di Anagni, che liberarono Bonifacio VIII. …
 
(*07) Lo “Schiaffo di Anagni”,
 
talvolta citato anche come “Oltraggio di Anagni”, è un episodio occorso nella cittadina laziale il 7 settembre 1303. Si tratta, invero, di uno schiaffo materialmente dato dall’empio Sciarra Colonna all’anziano ed inerme Pontefice, Bonifacio VIII. L’oltraggio riempì di sdegno anche molti avversari della politica di Papa Bonifacio VIII, come Dante Alighieri, che considerò l’irriverenza come rivolta a Cristo stesso. L’episodio fu cantato da Dante nella sua Divina Commedia: Purgatorio, XX, 85-90:
 
“ Perché men paia il mal futuro e ‘l fatto,
veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.
Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fele
e tra vivi ladroni esser inciso.”
 
Dante estrinsecò sempre una pesantissima valutazione sia sull’aspetto etico sia sul comportamento
politico di Filippo IV, che, per immane dispregio, non menzionò mai nella Commedia con il suo nome, ma esclusivamente con l’interminabile teoria  dei suoi “peccati”. Lo descrisse come “novo Pilato” (Pg. Xx, 91), poiché, come Pilato si lavò le mani della condanna di Cristo, nello stesso modo  Filippo ebbe l’impertinenza di professarsi alieno dall’infamia di Anagni.
 
…Nel 1303, morto Bonifacio VIII, Filippo IV impose il proprio controllo sul Papato e non trovò resistenza nella persona del Papa successore, Benedetto XI, il quale cassò tutte le scomuniche del suo predecessore. Il 2 aprile 1305, nel castello di Vincennes, morì la Regina Giovanna I di Navarra, moglie di Filippo IV ed il Vescovo di Troyes, Guichard, venne ignobilmente tacciato di aver fatto morire la Regina con la stregoneria ed il sortilegio. Morto anche Benedetto XI (viene lecito chiedersi se Bonifacio e Benedetto non siano stati “aiutati” a morire), Filippo IV si adoperò con gran magistero per far eleggere Papa un Francese, l’Arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, Clemente V, che, nel 1309, assecondando l’istanza del Tiranno di Francia, trasferì la Santa Sede, ovvero la Curia, ad Avignone. Iniziò così la “Cattività di Babilonia”. Il Pontefice perse gran parte della sua autorità, divenendo uno strumento passivo della Francia, così da esser tratteggiato come “Cappellano del Re di Francia”! Dante Alighieri, nella sua Divina Commedia, in seno ad una celebrazione nel Paradiso Terrestre pregna di allegorie, velatamente descrisse Filippo come “gigante” che “delinque” con la Curia, con patente antifona ai mutui privilegi, di diversa natura, formalizzati tra la Curia del Francese  Clemente V e la Monarchia di Francia ( Pg. XXXIII, 45). Filippo si valse ad ottenere la revoca parziale della Bolla “Unam Sanctam” e l’istituzione di un processo post-mortem a Bonifacio VIII (mai portato a termine). Continuamente costretto a far fronte ad ingenti spese, Filippo IV pensò di rifarsi alterando le monete (Maltote), perseguitando (1306 e 1311) gli Ebrei ed i Lombardi (Mercanti Italiani) ed inglobando illecitamente gran parte dei beni del ricchissimo Ordine dei Templari, di cui era fortemente debitore. Il potentissimo Ordine dei Templari, che aveva precedentemente respinto una domanda di ammissione all’Ordine presentata dal “postulante” Filippo IV Il Bello, fu oggetto di detrazioni, di accuse false e travisate, ovvero di accuse di empietà. Contro questi ultimi, particolarmente, Clemente V, “il Papa non Papa”, fu lo strumento di cui Filippo Il Bello si servì per porli sotto accusa nel 1312 e per poi destituirli dei loro patrimoni nel 1314. Alcuni dei Capi Templari, mendacemente tacciati di stregoneria e di idolatria, furono mandati al patibolo, con il placet di Clemente V, in particolare il Gran Maestro Jacques de Molay, nel 1314. Nella Divina Commedia, Dante Alighieri adombrò Filippo IV come colui il quale introdusse “senza decreto,/…nel tempio le cupide vele” (Pg. XX, 91-93), il quale, vale a dire, anticipando, dolosamente e motu proprio, il decreto apostolico del 1312, unico atto che potesse legalmente sancire (ferma restando la strumentalizzazione di potere) lo scioglimento dell’Ordine dei Templari, ordinò le sevizie ed il massacro di un vastissimo numero di Cavalieri, ovvero l’arresto e la taccia di eresia financo del già citato Gran Maestro Jaques de Molay e la conseguente confisca-depredazione dei beni templari. Lo scandalo che coinvolse le nuore di Filippo IV, detto “ de la tour de Nesle”, tacciate di adulterio, deflagrò nello stesso anno ed incise segnatamente l’epilogo del turpe regno dello stesso Filippo. Gli amanti furono giustiziati. Filippo morì il 29 novembre 1314, nel corso di una battuta di caccia (*08) (secondo alcuni Storici, invece, a causa di una grave malattia sconosciuta) e fu seppellito nella Necropoli Reale della Basilica di Saint-Denis, dov’è conservato tutt’oggi un suo sarcofago. Gli succedette il figlio Luigi X di Francia.
 
(*08) In alcuni versi del “Pd. XIX, 118-120”, Dante riportò l’accusa contro Filippo IV di coniare falsa moneta, vale a dire di far coniare monete d’oro con un titolo più basso di quello dichiarato (mistificatoria istanza derivante dalle cospicue spese sostenute nella guerra contro le Fiandre). Nello stesso contesto Dante riportò la dinamica della morte di Filippo, caricato da “…colpo di cotenna”.
La “cotenna” è la pelle del cinghiale e, per estensione semantica, il cinghiale stesso. Filippo, tuttavia, non ebbe pace neanche da morto, poiché durante la Rivoluzione Francese, ad evidenziare l’odio del suo stesso popolo, alcuni sconosciuti si introdussero in Saint Denis, tempio parigino, i quali si recarono alla tomba che racchiudeva il sarcofago del Sovrano, riesumarono i resti e li scaraventarono con disprezzo in una fossa, chiudendola poi con della calce.
 

“Lì si vedrà il duol che sovra Senna

induce, falseggiando la moneta,
quel che morrà di colpo di cotenna.”
*
La Francia durante il Regno di Filippo IV Il Bello
 
« Qui ventum seminabunt et turbinem metent »
Proverbio relazionato ad Osea, Profeta Ebraico (Cap. VII v.7-Libro di Osea)
Osea intende rammentare a chi fa del male, che riceverà in cambio un male maggiore.
 
Filippo Il Bello regnò dal 1285 al 1314, ne consegue che l’anno centrale del suo regno fu il 1300.
Come già enunciato, Filippo ereditò un Regno assai prospero, ma, appena salì al trono, la situazione generale iniziò a degenerare. Tale degenerazione subì una catalizzazione proprio a partire dal 1300.
L’etica, durante questo periodo, fu caratterizzata da una degradazione globale. Degenerazione dei costumi, adulterio, frode e cattiveria erano molto estesi tra i ceti più elevati della società. Nei ceti meno abbienti, anzi popolari, era comunissimo trovare contraffattori, lestofanti, profittatori, clochard, nomadi, che durante il giorno popolavano le vie urbane, ma che, durante la notte, a Parigi, trovavano ostello nel nascente Astro della Corte dei Miracoli. “La Cour des Miracles” era il vetusto quartiere circoscritto da « Rue du Caire » e da « Rue Réaumur », oggi Secondo Arrondissement. I lestofanti ed i clochard si impadronirono di questo quartiere ed assunsero il vezzo di nominarne un Monarca. “La Cour” fu definita “des miracles”, poiché le fasulle invalidità e malattie dei clochard, qui, di notte, taumaturgicamente guarivano. In questo luogo di menzogna, di abietti tradimenti, di assassinii e di spergiuri di ogni sorta, ovvero in questo luogo dove l’uomo dimostrò di aver smarrito ogni sentimento morale, in questo luogo i gitani ammaliavano gli “indigeni” con prestigi e sortilegi, tentando, in questo modo, di procacciarsi qualcosa per campare e, sovente, depredando e turlupinando i malcapitati. La Corte dei Miracoli, un posto torvamente arcano, dove si rifugiavano le peggiori risme di manigoldi. La Corte dei Miracoli: un grande melodramma dove collidevano le forze del bene e del male. La pedicazione era divenuta costume diffuso e consolidato, parimenti al meretricio ed all’infedeltà coniugale. Era divenuta una prassi ormai conclamata, ovvero una consuetudine, la realtà che Dignitari di Corte, uomini e/o donne, a qualsiasi livello, avessero amanti. I legami matrimoniali rientravano nella logica delle questioni di Stato e, per quanto riguarda l’amore ed il sesso, ci si poteva indirizzare altrove. Le Donne di Corte non erano inferiori, in questo, ai loro consorti. Le Dame, invero, giungevano a farsi formalmente vanto delle loro tresche erotiche. Anche il Clero, in compagnia della Classe dei Mercanti, svolgeva un ruolo notevole in questo senso. Nel 1301 apparve una cometa, contemplata come foriera di terribili sventure.
Nel 1313 un’immane carestia flagellò la Francia. Nel 1314, anno della soppressione dell’Ordine dei Templari e della morte sulla pira del loro Gran Maestro Jacques de Molay, esplosero gravissime pandemie di dissenteria. Le campagne si svuotarono delle loro popolazioni e si gremirono di arbusti, rovi, ovvero divennero selvaggiamente brulle ed incolte. Altresì si disseminarono di carogne di animali morti. Le strade rurali, ancor più di quelle urbane, erano divenute insicure e vi regnava la violenza, ovvero gli istinti selvaggi vi lasciavano adito a rapina e sangue. Iniziò la peste, la quale raggiunse il parossismo nel 1320-1321. Di ciò vennero accusati gli Ebrei ed i lebbrosi, molti dei quali arsi vivi. Il 1314 si concluse, 29 novembre, con la morte dell’abietto tiranno: Filippo IV Il Bello, proprio poco dopo la morte di Nogaret e di Clemente V. Il 1315 iniziò con piogge torrenziali e tempeste, talmente cospicue che i più pensarono ad un imminente Diluvio Universale. La carestia si accentuò e si arrivò persino a casi di antropofagia. Nel 1316 morì il primo dei figli di Filippo IV, Luigi X, dopo soli due anni di regno. Il breve regno di Luigi X non fu particolarmente degno di nota. Questo esiguo periodo fu contrassegnato dall’incessante agone tra le fazioni nobili. Tutto lasciò e lascia pensare al verificarsi del vaticinio proferito sul rogo dal morente Gran Maestro Jacques de Molay, il quale profetizzò che poco dopo la sua morte sia Filippo sia i suoi discendenti lo avrebbero seguito nella tomba:
ET FACTUM EST!!!
Come già enunciato, la Francia, in questo periodo, si era trasformata in una « Sodoma e Gomorra » ! Volendo assumere come incontrovertibile postulato il motto latino “Caput imperare, non pedes!” (E’la testa a comandare, non i piedi), va ricercato in Filippo IV Il Bello il maggiore, se non l’unico responsabile di questa dolorosa e travagliata fase storica, nonché delle sue conseguenze.
Secondo La Bibbia, Dio distrusse Sodoma e Gomorra a causa della corruzione dei costumi delle loro popolazioni (Genesi-19). “Sodoma e Gomorra” è divenuta un’espressione il cui significato allegorico è: “sodomia, omosessualità, corruzione, decadimento morale ed umano.” Proprio ciò che occorse nella Francia “Filippina”. Fu proprio un Poeta Francese nel XIX secolo, Alfred de Vigny,
nella poesia “La colère de Samson”, a darne una parziale definizione: “ La Femme aura Gomorrhe/ et l’Homme aura Sodome” (La donna avrà Gomorra *lesbismo* e l’uomo avrà Sodoma *pedicazione*). Filippo IV Il Bello, verosimilmente, aveva commesso un grande errore: Si era rinchiuso nella sua “Turris Eburnea”, ovvero nel “Misoneismo”! Misoneismo intriso di vanità, presunzione, orgoglio, egoismo, a tal punto da non comprendere che stava sfidando e profanando “Il Sacro” e “L’Intangibile”, ovvero “Il Vicario di Cristo in Terra” ed “I Drudi del Santo Sepolcro
in Terra Santa”!
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Templari
 
I Templari (alle origini vi fu un piccolo gruppo di Cavalieri in quel di Gerusalemme “1118”),
furono Cavalieri dell’Ordine Religioso-Militare del Tempio, ufficialmente istituito da Ugo Di Payns nel 1119, a Gerusalemme, con l’obiettivo di presidiare i Luoghi Santi e di assicurare l’incolumità dei Fedeli Cristiani che si recavano in pellegrinaggio al Santo Sepolcro, conquistato dai Crociati. Come Ordine Religioso-Militare, i Templari fusero gli ideali di cavalleria e di spiritualità monastica. Il nome origina da Christi Militia, trasformato in  Militia Templi o Fratres Militiate Templi, a posteriori del trasferimento nel Palazzo Reale di Gerusalemme, presso il Tempio di Salomone. I Membri dell’Ordine accettavano i voti di obbedienza, di castità e di povertà e venivano distinti in: Cavalieri, Sacerdoti-Cappellani, Scudieri-Inservienti. I Templari rispettavano una condotta di vita giusta una regola propria, redatta nel 1128 (in questo stesso anno l’Ordine fu riconosciuto da Onorio III) sul modello di quella dei Monaci Cistercensi, fatta ratificare da S. Bernardo di Clairvaux al Concilio di Troyes. A capo dell’Ordine, che nel 1139 fu sottoposto a diretto controllo papale, vi era un Gran Maestro, elettivo. L’insegna dei Templari era una croce rossa su veste bianca per i Cavalieri, su veste nera per gli altri. L’Ordine era organizzato in province (tre orientali e sette occidentali) e costituiva una sorta di Stato sovrano senza territorio, ma ricco di beni sparsi, destinato istituzionalmente a raccogliere e a veicolare in direzione della Terra Santa, uomini e denaro. I Templari, diretta espressione del movimento crociato, assiduamente ed indefessamente impegnati nelle guerre contro i Musulmani, ebbero particolare rilievo nelle battaglie di Acri (1189), Gaza (1244), Al-Mansura (1250). Propagatisi in numero, molto rapidamente, sull’intero continente europeo, a motivo della loro potenza e della loro ricchezza ed avendo un ruolo topico nelle transazioni commerciali con l’Oriente (si erano stabiliti  a Cipro dopo la caduta di S. Giovanni d’Acri, ultimo baluardo crociato in Terrasanta) suscitarono ben presto l’invidia e la gelosia di molti nefandi ed inetti Sovrani. L’avido Re di Francia, Filippo IV Il Bello, bramoso di depredare le ricchezze dei Templari, tacciandoli falsamente di blasfemia ed altro, fece abolire l’Ordine dal suo abietto “Pupo”, il Papa Francese Clemente V (Concilio di Viennes, 1312). Filippo IV avocò a sé (il processo si protrasse dal 1307 al 1314) tutti i patrimoni dei Templari e martirizzò gli appartenenti all’Ordine con atroci sevizie e condanne alla pira. Tra questi ultimi il Gran Maestro, l’ultimo, Jacques de Molay (Molay 1243-Parigi 1314). Quando de Molay fu eletto, sull’Ordine aleggiava già, nefastamente, lo spettro della repressione e della soppressione. Filippo Il Bello, tramite Clemente V, lo chiamò a Parigi e lo fece proditoriamente arrestare con l’accusa di idolatria.
Con lo stratagemma di voler dibattere l’unificazione dell’Ordine del Tempio con quello dei Cavalieri Ospitalieri, disegno ricusato da ambo gli Ordini, Papa Clemente V invitò il Gran Maestro Templare, Jacques de Molay, dalla protetta dimora di Cipro, a Parigi. Venerdi 13 ottobre 1307, Filippo di Francia fece arrestare Jacques de Molay e tutto il suo entourage, che comprendeva il  cerchio interno dell’Ordine Templare. Contestualmente, con un’operazione a sorpresa, allestita minuziosamente, Filippo si valse ad imprigionare la maggior parte dei Templari residenti sul suolo francese. L’addebito, “…eccessivamente spaventoso da parafrasare. Delitti abominevoli, turpitudini aborrevoli, efferatezze blasfeme, etc…”, è di “aver arrecato a Cristo vilipendi più turpi di quelli
patiti sul Calvario”. La dichiarazione di eresia fu pronunciata dal Responsabile dell’Inquisizione di Francia, Guillaume de Paris, in ottemperanza all’ordine di Clemente V, il Papa eletto con il subdolo patrocinio di Filippo IV Capeto. I giudici ottennero le confessioni mediante tortura, confessioni che servirono Filippo IV per realizzare i propri progetti. Prima dell’esecuzione della condanna a morte, de Molay riuscì a protestare la sua innocenza al cospetto di tre cardinali, tuttavia Il Capeto fu irreversibile sulla sua decisione. Così l’ultimo Gran Maestro Templare morì sul rogo: era il 18 marzo 1314.
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“Omnia mea mecum porto”
 
Si tratta di un aforisma latino che Cicerone (Paradoxa 1,1,8) ascrive ad uno dei “Sette Savi”, ovvero a Biante di Piene (VI Secolo A.C.). Letteralmente sta a significare: “Tutte le mie cose le porto con me” o, per estensione: “Ogni cosa che in me c’è di buono, la porto con me!” o, ancora: “La vera ricchezza è quella dello spirito”. L’aforisma è stato ascritto pure al dialettico megarico Stilpone (Maestro di Zenone di Cizio, con cospicua incidenza sull’indirizzo stoico), il quale, allorché Demetrio il Poliorcete, conquistando Megara, gli chiese se avesse dimenticato qualcosa, replicò: “Niente! Tutte le mie cose le ho con me!” (Seneca: Epistulae Morales, 9 18-19). Ed ancora, la paternità della frase viene attribuita anche a San Paolo il quale, ascrivendole una semantica aulicamente etica, enuncia che la santità si edifica sulle esperienze mondane che ciascuno reca seco. Allegoricamente, la semantica dell’aforisma può essere parafrasata in questo modo: “Le sole cose che invero ci appartengono sono: la nostra dignità e la nostra intelligenza.” Questi due valori sono verosimilmente tra i più topici di quelli che un essere umano possiede. Sono i valori inconfutabilmente ed inderogabilmente necessari per condurre un’esistenza all’insegna della giustizia e dell’onestà, sia nei confronti del prossimo sia nei confronti di sé stessi. Perché parafrasare questo aforisma? Perché “Filippo IV Il Bello”, di “Bello” verosimilmente aveva soltanto il sembiante esteriore, ma, anagogicamente, era l’ipostasi della più esatta antitesi dell’inclito aforisma.
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Titolo Opera
“Omaggio a Donna Olimpia*Principessa Maidalchini*Mater Sancti Martini in Montibus
 “La presente opera è il frutto di una ricerca documentale riadattata giusta la dialettica dell’autore”
 
Struttura dell’opera:
 
*San Martino al Cimino
*Abbazia di San Martino
*Palazzo Doria-Pamphili
*Omaggio a Donna Olimpia
*Il Principe
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San Martino al Cimino
 
San Martino al Cimino, pittoresco borgo ellittico di mesmerizzante amenità, è un celeberrimo resort situato tra il versante meridionale dei Monti Cimini e la riserva naturale del Lago di Vico, a 561 metri sul livello del mare, ricercato per l’eccellente ecosistema, per il clima mite e piacevole delle sue estati, ovvero per i boschi che rigurgitano di esculenti e fragranti funghi (specialmente porcini dallo spugnoso cappello bruno-castano e tartufi dal sotterraneo tubero) e castagne bruno-scure dalla polpa dolce e farinosa (famosa è la sagra della castagna e della caldarrosta ad ottobre), per l’imponente Abbazia Cistercense in stile ogivale, per il barocco Palazzo Doria-Pamphili, per l’eccelsa prospettiva paesaggistica verso il capoluogo Viterbo. Il suo Santo Patrono, ed eponimo, è il soldato romano, di origine italica, San Martino di Tours. Il vetusto nucleo urbano, risalente al Medioevo, sviluppatosi e propagatosi lungo un declivio montano, nei pressi della chiesa abbaziale di San Martino, ha subito un prezioso remake urbanistico in epoca barocca risentendo, ovviamente, degli influssi stilistico-architettonici di tale periodo, pur preservando, intatte, vestigia delle primitive mura e del primigenio impianto urbano. Il nucleo del seicentesco borgo, nella sua porzione più elevata, a cui si approda esclusivamente tramite Porta Viterbese o Porta Urbica ( del Borromini, a nord) e Porta Romana o Porta Montana (del De Rossi, a sud), preserva ed è dominato dall’Abbazia (centro di potere spirituale) e dal barocco Palazzo Doria Pamphili (centro di potere laico), la cui erezione fu commissionata da Donna Olimpia Maidalchini a grandi architetti dell’epoca (all’architetto militare Marcantonio De Rossi, agli architetti civili Francesco Borromini, Gian Lorenzo Bernini e Padre Virgilio Spada), sfruttando il recupero di elementi residuali del rifacimento del palazzo di Piazza Navona, a Roma, di cui era proprietaria la Famiglia Pamphili, ovvero della dimora, fino alla morte, del cognato di Donna Olimpia: Papa Innocenzo X Pamphili. Inizia una fase di grande sviluppo sociale. San Martino al Cimino fiorisce ed esplode, come piccolo centro abitato, nello spazio circostante alla pristina Abbazia dei Monaci di Pontigny, in virtù dell’iniziativa, dell’intraprendenza e della sagace lungimiranza di Donna Olimpia (prima di essere possesso di Donna Olimpia, San Martino fu possesso dei Monaci Cistercensi e, più anticamente ancora, dell’Abbazia di Farfa), la quale esige dal potente cognato, il citato Pontefice Innocenzo X, il più alto rango nobiliare, ovvero il titolo di Principessa di San Martino. Così, nel 1644, San Martino diventa feudo della Famiglia Pamphili-Maidalchini e, nel 1645, Principato. Donna Olimpia commissiona quindi, all’architetto militare Marcantonio De Rossi, la ripianificazione integrale del centro e della parte del borgo internamente alle mura di cinta. Il borgo avrà una struttura morfologico-urbanistica simile a quella di Piazza Navona, a Roma. Successivamente, edificato il nuovo borgo, che da una veduta aerea palesa un ellissomorfismo, ed arricchitolo con la costruzione di una lunga teoria di casette a schiera, tutte di uguali forma e grandezza, interne alla cinta muraria e ad essa appoggiate, con spirito altamente filantropico, Donna Olimpia lo gremisce dei diseredati di Civitavecchia, Tarquinia e dintorni, allogando, ai nuovi venuti, un’abitazione nelle prefate casette a schiera. Queste casette a schiera rispecchiarono, illo tempore, l’effetto tangibile di una monografia urbanistica uniformata e stereotipata. Esse furono, invero, case popolari a riscatto. Inizia, altresì, il sopralzo del vieto Palatium Parvum, già sede dei Cistercensi, da trasformare in dimora della Principessa.
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Abbazia di San Martino
 
Il tempio dedicato a San Martino di Tours, Patrono ed eponimo della cittadina, rappresenta l’attestazione, l’evoluzione più scenografica di una vetusta abbazia edificata dai Monaci Cistercensi di Pontigny (Dipartimento dello Yonne-Francia. Vi sorge una delle più antiche abbazie cistercensi 1114), agli albori del ‘200, sopra una proto-struttura risalente all’anno 838 D.C. “Ecclesia Sancti Martini in Montibus”, cenobio di un’antica comunità di Monaci Benedettini. L’impianto abbaziale, a croce latina, palesa elementi di Scuola Borgognona e costituisce uno dei più originali modelli di arte ogivale in area viterbese. L’edificio propone un prospetto austero, impreziosito da un rosone e da una grande polifora in stile ogivale. Lateralmente spicca una coppia di torrette campanarie, di epoca successiva (‘600, opere del Borromini) sulle quali poggiano due cuspidi piramidali. Il tergo dell’Abbazia, nella sua abside poligonale di pietra a doppio ordine di monofore, risulta singolarmente simmetrico. Lateralmente all’edificio, permangono alcune colonne, semplici e nel contempo raffinate, del vecchio chiostro. L’interiore della chiesa, a tre navate, scandito da volte ogivali (collocate su colonne cilindriche a forma di croce) e da volte a crociera costolonate, in tutta la sua sobrietà e solennità, riconduce agli imponenti duomi ogivali ed alle abbazie dei Monaci Cistercensi, in virtù dei prefati elementi architettonici, dei finestroni, dell’alto soffitto a crociera …
L’altare costituisce la più vetusta, pregiata e straordinaria attestazione del tempio primigenio.
Vicino all’altare, nella navata centrale, la prima colonna di destra è sormontata da una capitello che presenta il blasone del Cardinale Francesco Todeschini Piccolomini. Nella navata centrale è tumulata la Principessa Maidalchini, deceduta a 63 anni, a causa di un’epidemia di peste, a San Martino al Cimino. Era il 26 settembre 1657. In prossimità dell’entrata al tempio, sull’impiantito della navata mediana, una grossa lapide marmorea, la cui epigrafe fu redatta dalla Principessa Maidalchini in persona, commemora il Cardinale Raniero Capocci (finanziatore dell’edificazione del tempio) ed il Cardinale Francesco Todeschini Piccolomini, patrocinatore di cospicue opere di ristrutturazione e restauro nel ‘400. Il transetto di destra è impreziosito da una tela, un eccellente gonfalone di Mattia Preti : “La carità di San Martino”, alias: “San Martino a cavallo nell’atto di donare il mantello ad un povero”. Dietro a questo: “Cristo in pietà”! Altro affresco notevole che fregia l’interno abbaziale è: “Madonna con il Bambino”, del ‘300. All’inizio della navata di destra, una scenografica inferriata, con blasone della Famiglia Pamphili, introduce ad un fonte battesimale del ‘600. Nel transetto opposto, a sinistra, è situato un organo degli inizi del ‘900, qui approdato da un tempio anglicano, a trasmissione meccanica. Nel presbiterio è allogata la tomba di Donna Olimpia, ricordata da una lapide di marmo. Una sorta di andito unisce l’Abbazia a Palazzo Doria-Pamphili.
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Palazzo Doria-Pamphili
 
L’edificazione del centro del potere laico, Palazzo Doria-Pamphili (1652), in sovrapposizione a pristine strutture abbaziali, ovvero inglobando sezioni dell’ex-convento (portale romanico), è frutto della volontà di Donna Olimpia Maidalchini, Principessa di San Martino al Cimino, la quale commissionò a Marcantonio De Rossi, architetto militare, la totale ripianificazione e ristrutturazione urbanistica della cittadina. Il Palazzo venne edificato impiegando reliquati derivanti dalla modernizzazione di Palazzo Pamphili, nella romana Piazza Navona, ove la Principessa Maidalchini dimorò sino alla dipartita del Pontefice Innocenzo X, suo cognato. Il Palazzo, che presenta una conformazione esteriore alquanto austera, rigurgita di preziose sale affrescate e di saloni con fastosi soffitti lignei. L’area primigenia dello storico edificio, “Il Cantinone”, è sezionata da imponenti pilièri, sopra i quali gravano le arcate della prima struttura abbaziale. Quest’area, attualmente, è utilizzata per party, esibizioni musicali, défilé, rassegne, etc…
Un locale peculiarmente consono all’allestimento di simposi e stage, lo si trova al livello sopraelevato, arricchito della magnifica Sala Aldobrandini, di una réception e di ben sei aule didattiche. Architetti di Scuola Romana (Francesco Borromini, Paolo Maruscèlli, Marcantonio De Rossi, …) lavorarono alla costruzione del “Piano Nobile”, fregiato di raffinati soffitti a cassettoni, oggi adibito a polivalente sala congressuale e collegato all’ornatissima sala della Principessa Maidalchini, dove spicca, tra le altre preziosità, un elegantissimo, monumentale camino. Sempre in relazione alla Principessa, va ricordata la peculiarità della sua camera da letto, ovvero la possibilità di abbassare, tramite girelle, il soffitto a cassettoni e, questo, al fine di agevolare l’aumento termico in inverno. Ogni vano del Palazzo è caratterizzato da un’intensa luminanza. Ancora più su, dal piano sovrastante, prendendo un drink, è possibile dilettarsi di un coreografico diorama, ovvero di una fastosa veduta d’insieme sulle tegole curve delle folkloristiche casette a schiera, sulla Maremma del Lazio Settentrionale e, ancora più lontano, fino al Tirreno! Tutti i livelli del Palazzo sono raccordati da una barocca scala in peperino, a due rampe, a forma di elica. D’estate la corte ed il parterre sono utilizzati per l’allestimento di manifestazioni out-door! Da non dimenticare la Sala dei Monaci, fregiata di intersezioni di volte a botte, e la Sala del Granaio (ex camerate dei monaci). Il Palazzo è raccordato all’Abbazia per mezzo di un passaggio edificato al di sopra di una volta che unisce il chiostro alla piazza posta a tergo dello stesso impianto abbaziale. Attualmente il maestoso edificio ospita l’A.P.T. di Viterbo, è sede di un ricercato Centro Congressi e vi si tengono corsi dell’Università della Tuscia.
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“Omaggio
a

Donna Olimpia

Principessa Maidalchini
Mater Sancti Martini In Montibus”
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Donna Olimpia Maidalchini nacque a Viterbo, nel cuore della Tuscia, il 26 maggio 1594, e morì nel “suo” Principato, San Martino al Cimino, a 63 anni, il 26 settembre 1657. Nel secolo barocco svolse il topico ruolo di deuteragonista nella Roma del tempo, lasciando, ma solo in apparenza, la leadership al cognato-pontefice Innocenzo X Pamphili. Il padre, Capitano Sforza-Maidalchini, era un accollatario di Viterbo, mentre la madre, Donna Vittoria Gualtiero, era Patrizia di Roma e Nobile di Viterbo. Il Capitano Sforza-Maidalchini, monoliticamente convinto di lasciare il proprio asse al figlio maschio, aveva autarchicamente e fallocraticamente risolto di allogare le figlie femmine, nel numero di tre, in convento, cosa che, illo tempore, era prassi consolidata. La giovane Olimpia, nondimeno, esecrava tale patriarcale e maschilista decisione. Venne assegnata così alle “cure” di un fazioso e retrivo mentore spirituale, con l’assunto di catechizzarla psicologicamente ad accettare i voti di castità, povertà ed obbedienza. Ma Olimpia dovette ricorrere a tutta la sua sagacia ed imparare rapidamente l’arte del machiavellismo(***), dell’hobbesiano “cui licitus est finis, etiam licent media” (Hobbes, Op.4, Tratt.6, Cap. 2, Art.1,8), del “mors tua vita mea”, vale a dire che tacciò, e non a torto, il “sanfedista” di tentata violenza carnale, suscitando un tale scalpore che il “pedagogo spirituale” subì la sospensione “a divinis oficiis”, ovvero il divieto, per un sacerdote indegno, a celebrare l’Eucarestia e gli altri Sacramenti. Questo episodio convinse il Capitano Sforza-Maidalchini, obtorto collo, ad acconsentire affinché la figlia prendesse marito. Obtorto collo, poiché all’epoca, allogare una figlia in matrimonio, significava fornirla di dote, ovvero di patrimonio. Olimpia, tuttavia, nel tempo si dimostrò figlia devota e grata nei confronti del comprensivo padre, poiché, una volta divenuta “Papessa”, intercesse per la sua nomina a Vescovo.
Seguì, quindi, il matrimonio della giovanissima Olimpia con il facoltoso proprietario terriero, Paolo Nini, che, tuttavia, dopo appena tre anni morì, rendendola ventenne, precoce, ricca, inconsolabile ed indipendente vedova. La stupenda e grandiosa Olimpia, risoluta, energica e forte, aveva immediatamente appreso e metabolizzato, per esperienza diretta, l’inderogabilità dell’assunto del commediografo latino Plauto “lupus est homo homini, non homo-Asinaria, v. 495”. L’assunto plautino compendia pragmaticamente una vecchia e dolorosa visione della condizione umana che si è trasmessa e divulgata nei millenni, permeando sia la dialettica colta sia quella volgare. Siffatta opinione dell’essere umano a livello antropologico e sociometrico-comportamentale è stata riesumata e nuovamente dissertata dal dialettico inglese, coevo di Donna Olimpia, Thomas Hobbes (1588-1679). Hobbes asserisce che la razza umana è archetipicamente egoista e che a dettare la condotta degli uomini intervengono soltanto l’impulso di autoconservazione e quello di prevaricazione. Hobbes ricusa l’ipotesi secondo la quale l’uomo si relaziona con il suo prossimo spinto da istinti filantropici. Gli esseri umani, continua Hobbes, si aggregano in società perché motivati da mutua paura. Nell’anarchia della natura, infatti, conclude Hobbes, ogni individuo è “azionato” dai suoi istinti primordiali e tenta di ledere o cancellare chiunque intercluda il proprio cammino. L’ancor provinciale Signora Olimpia, più tardi, riuscì ad entrare nell’Aristocrazia Romana, in virtù del suo secondo matrimonio (1612) con il romano, anonimo, ma di famiglia nobile, Pamphilo Pamphili, di 31 anni più vecchio di lei, fratello di Giambattista, grande avvocato di Curia e futuro Papa Innocenzo X Pamphili. Olimpia iniziò a profondere tutta la sua straordinaria vitalità, accompagnata da una grande perspicacia negli affari, da un eccezionale penchant per le Arti in genere e per il fasto. Olimpia, con scaltrezza ed ineguagliabile magistero, si consacrò totalmente al potenziamento del patrimonio e del potere della Famiglia Pamphili. La partecipazione e l’intervento di Olimpia, soprattutto da un punto di vista economico-finanziario, catalizzarono l’ascesa di Monsignor Giovanni Battista Pamphili fino al trono di Pietro, nel 1644. Lo stesso anno il neo-pontefice nominò Olimpia, rimasta nuovamente vedova nel 1639, sua erede universale. Fu proprio l’approdo di Giambattista Pamphili al soglio di Pietro a segnare l’inizio del crescente potere di Olimpia, al punto che venne denominata “Papessa Olimpia”! Infatti, chiunque volesse chiedere udienza al Pontefice, doveva prima “transitare” attraverso la Nobildonna. De facto, Olimpia era diventata l’esclusiva ed incontestabile Signora del Papato. Importanti transazioni commerciali, titoli onorifici, contratti, etc…tutto veniva deciso nel suo salotto. Olimpia fu una Donna di potere e, considerando l’esasperato aspetto fallocratico, oscurantista e conservatore del tempo, il nesciente e scettico volgo romano, sull’onda di strumentalizzazioni ideologiche architettate da detrattori interessati per motivi politici ed economici, non riusciva né a comprendere né a sopportare una figura femminile di potere, definendola, trivialmente e gratuitamente: “La Pimpaccia di Piazza Navona”! Olimpia, Eminenza Grigia di Papa Innocenzo X, fu la vera camena del progetto di modifica urbanistica ascritto al Pontefice, vale a dire, ad esempio: riassetto edilizio-architettonico di Piazza Navona, ristrutturazione del palazzo di famiglia, edificazione della Chiesa di Sant’Agnese in Agone (Borromini), edificazione della Fontana dei fiumi (Bernini), costruzione del Casino Paphili al Gianicolo (commissionata all’Algardi), etc. Donna Olimpia svolse un ruolo estremamente topico anche nel rilancio dei fasti dell’Urbe e nel riaffermare la supremazia del Pontefice, proprio nella fase in cui i poteri del Papato, spirituale e politico, vivevano un momento particolarmente buio ed universalmente negativo. Papa Innocenzo X, nel 1645, la elevò ai ranghi nobiliari di: Principessa di San Martino al Cimino (nella navata centrale della cui Basilica è sepolta), Feudataria di Montecalvello, Grotte Santo Stefano e Vallebona, tutte località di area viterbese. Nel 1650, in occasione del Giubileo, Donna Olimpia fu la figura predominante, ovvero poté evidenziare ancora la sua grande personalità ed il suo grande estro organizzativo.
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Il Principe
 
Il trattato è imperniato sui cardini fondamentali su cui poggiano, all’epoca, gli stati repubblicani e sulle ragioni del perché essi subiscono metamorfosi in senso monarchico. L’opera, caratterizzata dalla disamina critica della morale politica di prassi, si contraddistingue per la forza che centrifuga il Machiavelli in direzione delle istanze inderogabili della politica del tempo, ovvero in direzione di un auspicabile intervento dei Signori dell’epoca e, ciò, dissertando esplicitamente sulla grande e conflittuale tematica corrente: Il Principato!
Il 10 dicembre 1513, Francesco Vettori (*),…
 
(*) Camaleontico uomo politico fiorentino, versatissimo nel rapportarsi con successo sia con la Repubblica Fiorentina sia con la Signoria Medicea, ottenendo uffici da entrambe.
 
…in seno al suo ricchissimo epistolario col Machiavelli, veniva da questi edotto circa il compimento dell’opera, che gli veniva così esposta:
“ Ho composto un opuscolo “De Principatibus”, dove io mi profondo quanto io posso nelle cogitazioni di questo subietto, disputando che cos’è Principato, di quale specie sono, come e’ si acquisiscono, come e’ si mantengono, perché e’ si perdono.”
(Machiavelli)
 
Machiavelli par prendere l’aire filosofico, invero, da una catalogazione meramente razionalista, sceverando la Monarchia in tre distinte categorie: ereditaria, nuova, mista. Nondimeno l’anatomia dialettica indugia su ciò che si identifica con il ganglio delle problematiche aperte, vale a dire sul modo in cui si realizzano, astraendo da qualsiasi consuetudine di autorevole ascendente e rango, i nuovi Principati. Ed ancora, sul modo in cui i Principati si occupano e sottomettono, con eserciti propri o prezzolati, con l’ausilio della buona sorte o della cardinale, propria virtù. E, per concludere, sul modo in cui i Principati, una volta creati e/o conquistati, debbano essere preservati. In quanto ai concetti di Stato e di Statista, non sono gli archetipi, es: Mosè, a catalizzare l’attenzione del Machiavelli. Il grande filosofo si concentra su quegli Attor Primi di storiche imprese politico-militari quali, ad esempio, i Capitani di ventura e, particolarmente tra questi, Il Valentino (a lui cronologicamente più vicino), quel Cesare Borgia che lui indicherà quale perfetta ipostasi del “Principe”:
“…io non saprei quali precetti mi dare migliori a uno Principe nuovo, che lo esempio delle azioni sua; e se li ordini suoi non profittorno, non fu sua colpa, perché nacque da una estraordinaria ed estrema malignità di fortuna”. (Machiavelli)
Il confine stabile del singolo agire si identifica, invero, nell’ “ordo rerum”, ordine fisiologico e non più soprannaturale. Il merito del Principe non si permea più di peculiarità morali, bensì psicologiche e si identifica con il grande magistero, l’autorevolezza personale, la perspicacia e l’oggettiva coscienza di sé. Il Principe deve essere astuto e forte, sagace ed acuto, “virtù”, queste, che gli devono aprire le porte del successo. Deve essere un “allotropo”, ovvero deve mutare forma e pensiero a seconda delle contingenze! Il Machiavelli coonesta qualsivoglia operato del Principe, pur se in deroga ai principi dell’etica: “se habbi nelle cose a vedere il fine e non il mezzo”!
Romanticamente volando nell’ucronia, se il Machiavelli avesse personalmente o storicamente conosciuto Donna Olimpia, chissà se, invece di “Il Principe”, non avrebbe scritto “La Principessa”!!!
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Published on e-Stories.org on 11/11/2016.

 
 

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